Micaela era sempre stata una ragazza difficile. Dura,
impossibile da trattenere, testarda, aggressiva, impulsiva. Sua madre la definiva reazionaria,
suo padre agitatrice. Molto bella, troppo bella, intelligente e brillante,
sempre con qualcosa da fare, sempre con qualcosa da dire. Amante della
confusione, delle azioni plateali e dei toni alti. Schietta e diretta, brusca
molto spesso, con la grande capacità, del tutto estranea ai genitori, di avere la meglio su tutti gli altri. Non
per prepotenza o violenza, solo per una imprescindibile forza, tanto sua quanto
lo era il suo nome. Conosciuta,
rispettata e ovviamente temuta. Contro
tutte le sue decisioni, tutte le sue disavventure e i suoi colpi di testa i
genitori non erano mai riusciti ad avere la meglio. Quel piglio, quello sguardo
vivo, quegli occhi luminosi e brillanti avevano sempre vinto sulla vita e sul
destino. La loro bambina non era mai uscita scottata da qualcosa aveva sempre
conquistato il posto dove voleva stare. Mario e Camilla davanti Micaela si
sentivano non impotenti ma inutili, perché in poco tempo lei era diventata
indipendente e libera, senza alcuna catena, senza alcun ostacolo che non
potesse superare da sola. Era nata grande, diceva la nonna. Micaela era nata
grande, reazionaria e agitatrice. Era nata senza alcun difetto, forte e
assoluta come nasce la vittoria in un campo di battaglia. Eppure, proprio ora
che era all’università, sola con se stessa, vincitrice anche lì senza problemi
di voti o di ambiente, proprio ora che sembrava essersi addirittura calmata,
proprio allora era tornata a casa completamente diversa. Opaca, silenziosa, con
gli occhi spenti, con la bocca chiusa. Mario e Camilla guardavano la loro
ragazza ferma e immobile come non lo era mai stata. Incapace di sottostare ad
un ordine solo perché era un ordine ora accettava tutto senza battere ciglio.
Era quasi morta. Nessuna spiegazione, tutto andava bene. Non aveva mai spiegato
molto Micaela. Non aveva spiegato nulla quando era tornata a casa con “I am a
rock, I am an Island” tatuato in modo vistoso sul braccio. Non aveva spiegato
nulla quando non era proprio tornata a
casa e loro avevano chiamato la polizia e la polizia aveva risposto che anche
loro la stavano cercando, riapparendo due giorni dopo con il labbro tumefatto e
il sopracciglio spaccato. Non aveva spiegato nulla quando la professoressa di
Inglese aveva chiamato lamentandosi di lei e della sua interrogazione basata
tutta su risposte tratte dalle canzoni dei Beatles. Di senso compiuto si, ma
tratte dai Beatles. E a detta di Micaela aveva dovuto ammettere alla
professoressa, che non si era accorta di nulla, di averlo fatto per ottenere
una reazione. Non aveva spiegato nulla quando era rientrata a casa da scuola
completamente fradicia e con lo zaino pieno di ferri. Camilla aveva poi
scoperto che la scuola, quello stesso giorno, si era allagata per via di una
manomissione. E alla sua domanda “sei stata tu” Micaela aveva risposto “certo”,
ma senza dire altro. Non era una che parlava molto dei suoi motivi e ora che
rimetteva piede in casa e camminava piano senza sbattere porte o alzare al
massimo la musica, senza riempire la stanza di fogli e libri presi chissà dove
e chissà da chi, senza ospitare l’amico di un suo amico che sta partendo per la
Grecia, senza urlare al padre di spegnere quella merda di televisione, senza
portare cani mezzi deformi, senza avere quella vita che sgorgava da ogni suo
sguardo, ora Camilla e Mario erano preoccupati. Erano preoccupati e avevano
deciso di intervenire e riscattarsi da tutte quelle volte che non erano
riusciti a salvarla, tutte quelle volte che non erano riusciti a proteggerla da
tutto quel mondo che si lanciava addosso.
E siccome Micaela era davvero diversa, sembrava davvero afflitta da una
cosa che poteva sembrare solo tristezza cronica, non aveva detto nulla
dell’improvviso viaggio dagli zii in cui i genitori l’avevano fatta imbarcare.
Quando Micaela riaprì gli occhi fu accecata da tutta la luce
che proveniva dal finestrino della macchina. Aveva dormito da quando era salita
in macchina fino a quel momento. Uno degli auricolari le cadde dall’orecchio e
lei si ritrasse dentro la conca dello sportello cercando di proteggersi. Cercò
di riaprire gli occhi gradualmente risalendo verso il finestrino. Quando
finalmente ci riuscì si ritrovò persa in mezzo ad un’enorme campagna. Accecante
era l’unica parola che le veniva in mente e l’unica parola da cui voleva
proteggersi. Le sembrava che tutto brillasse, che tutto fosse uno specchio per
rivolgerle la luce addosso. E mentre lei ancora cercava di realizzare dove
fosse e verso dove fossero diretti la macchina girò d’improvviso sulla destra
inserendosi in una strettissima strada immersa in un uliveto. Nel giro di pochi
minuti la macchina si fermò e i suoi genitori scesero. Micaela li guardò dal
finestrino come un gatto osserva le sue prossime prede. Sua madre le sorrise
-
Scendi amore-
Micaela si mise dritta, fermò la musica che continuava ad
andarle nelle orecchie e si piazzò con forza gli occhiali da sole in faccia.
Scese come un ubriaco e sbattè la portiera. Si guardò intorno individuando
ulivi sia alla sua destra che alla sua sinistra e un lungo muro a secco che
sembrava continuare all’infinito di fronte a lei.
-
Dove siamo?-
Le parolacce erano un tocco da maestro per Micaela, le diceva
chiare e forti solo quando necessarie, riusciva sempre a fare colpo. E la
Micaela che c’era prima di questa nuova finta versione l’avrebbe platealmente
usata.
-
Stiamo andando a casa degli zii amore-
Micaela si guardò intorno, pur avendolo già fatto prima. Non
c’era niente, non c’era nessuno. Vie di fuga zero. Non che volesse scappare.
Deviazione professionale, rise tra se.
Infilò le mani in tasca e girò su se stessa per individuare sua madre
-
Allora questa casa?-
-
Questo è il muro di cinta amore, ha detto la zia
che ci sta venendo a prendere-
-
Questo è il muro di cinta. – si ripetè
Si avvicinò al muro a secco e abbassò appena gli occhiali
per guardarlo bene. Sembrava fosse lì da molto tempo, sembrava che tutto lì
fosse nato molto tempo prima di lei. Mosse il braccio per toccarle, quelle
pietre le sembravano morbide, calde, accoglienti. Avreste mai detto accogliente
di una pietra? Lei si, solo di quelle. Le
sue dita raggiunsero il muro e scoprirono la pietra fredda. Vi allargò il palmo sopra per esserne sicura.
Era fredda si. Però sentiva una certa morbidezza in esse, qualcosa di strano
per essere pietre. Le continuava a
guardare, le annusò, si portò la mano al viso per sentirne bene in calore.
Aveva le dita sporche di polvere e continuava ad odorarle per essere sicura del
profumo, perché era profumo.
-
Micaela!- una voce raggiunse i suoi sensi del
tutto attenti alle pietre.
Sua zia la guardava entusiasta tenendo le mani congiunte sul
petto. Micaela rificcò le mani in tasca e iniziò a spostare il peso da una
gamba all’altra.
-
Ma come sei cresciuta è tantissimo che non ci
vediamo!- le urlò praticamente in faccia abbracciandola. Micaela lasciò le
braccia lungo i fianchi e si limitò a evitare che gli occhiali le cadessero
dalla faccia.
-
Sei sempre più bella, mamma mia! Camilla mi ha
detto che sei un po’ triste! E fai bene a venire qui! Fai davvero bene! Così ti
rassereni un po’. Che poi ogni tanto
siamo tutti un po’ tristi! Ma dimmi, se vuoi eh, come mai sei triste? –
Quel fiume di parole non piacque molto a Micaela, che in
realtà voleva solo continuare a perdersi su quelle pietre.
-
Non sono triste, è noia- disse mentendo e
sussurrando
-
Oh, ma allora che fortuna c’è anche Andrea qui! Così
vi divertite insieme!-
Andrea, cugino, grande, padre. La mente di Micaela lo
catalogò subito. Che ci doveva fare con Andrea? Lei non voleva fare niente con
nessuno, voleva stare zitta, spegnere la testa e dormire fino alla fine dei
tempi. Fino alla fine del mondo, fino alla fine dell’esistenza della parola,
del pensiero, dell’azione. Fino alla fine.
Il fatto che lei non avesse detto nulla non ostacolò la zia
dal prenderle la mano e portarla fin dentro casa. Profumava di sapone, la casa.
Era tutta in ordine, fresca, impenetrabile da tutto quel sole che c’era
intorno. Da ogni finestra facevano capolino foglie e rami. Non c’era nessun
rumore, nessun suono, c’era un silenzio tanto forte che un po’ la
disturbava. Qualcuno aveva detto che nel
silenzio i pensieri sono più forti, e questo di certo lei non lo voleva. La zia li fece accomodare, “accomodatevi” aveva
detto. Si erano seduti tutti intorno al tavolo della cucina e Micaela si sentì
estranea, si sentì al di sopra di tutti, le sembrava di vederli dall’alto, di
non essere parte di loro, di essere una spettatrice, una normale persona che va
al cinema a vedere un film del quale non gliene frega niente. Non sapeva
nemmeno se voleva o non voleva essere lì, dalla zia. Però sapeva bene che non
voleva parlare e che non riusciva a seguire i loro discorsi. E che tutto quel silenzio ora le stava
davvero dando fastidio. In realtà le stava dando fastidio anche lo stomaco, le
stava salendo la nausea. E l’ansia. E poi di colpo scemava. E ritornava. E le
sue orecchie percepivano lontane le parole dei genitori e della zia. Come stai
come va io sto bene tu Micaela a Roma sta benissimo ha fatto amicizia ma che
hai combinato ultimamente qualche altra marachella no nessuna sguardo amorevole
e preoccupato e ora vomito qui sul tavolo e il cervello si disconnette e lei
mette una mano davanti alla bocca poi passa e allora il piccolino come sta e la
mamma stanno bene sono in montagna dai suoceri e ora dio falli stare zitti e in
tutto questo, all’improvviso, Andrea, il cugino grande padre, anche senza
virgole, apparve sul ciglio della porta proprio dove gli occhi di Micaela si
erano accomodati, anche loro, da mezz’ora.
-
Ciao – Andrea, voce atona. Mario e Camilla cominciarono a starnazzare
intorno a lui.
La zia si alzò così, per compagnia. Micaela rimase un attimo
seduta ad osservare suo cugino. Quanti anni aveva non se lo ricordava. Aveva
avuto da un anno un figlio, Luca, con una ragazza con cui non era sposato. Ok,
bene, fin qui c’era. Ma tutto il resto non lo trovava da nessuna parte. Non cose
del tipo che studi ha fatto, da quanto
non lo vedo, com’è per lui essere padre. No. Micaela non trovava da nessuna
parte nella sua memoria il motivo per cui suo cugino dovesse avere quella
faccia. Scura, opaca, silenziosa. Quella voce atona, quegli occhi morti. Poi
Micaela si alzò per salutarlo e la stretta di lui sul suo braccio le fece
venire i brividi. Lo guardò negli occhi e penso perché mai un ragazzo così
bello dovesse essere così triste. E nel momento in cui Andrea incrociò lo
sguardo di sua cugina, che non ricordava così alta, così bella, così grande,
pensò perché mai una ragazza così bella dovesse essere così triste. Perché si
vedeva, negli occhi, che non c’era luce.
-
Ma che belli i due cugini insieme, ci siete
usciti proprio bene voi due eh-
La zia non aveva torto. Visti da fuori Micaela e Andrea
erano belli da togliere il fiato. Mori con gli occhi neri, alti e snelli, con
le forme ben definite, labbra grandi e denti bianchi, pelle perfetta e scura.
-
Belli e bravi, tutti e due- disse Mario toccando
la spalla di Andrea.
-
Tesoro, perché non vi andate a fare un giro? –
la zia, secondo Micaela, parlava un tantino troppo.
Andrea guardò sua cugina. Le si avvicinò le indicò la porta.
E lei notò le mani, sembravano calde, morbide, accoglienti.
-
Andiamo- disse senza muovere ciglio.
Micaela si infilò subito gli occhiali da sole e lo seguì. Appena chiusa la porta la luce li investì di
nuovo. Lei rabbrividì, le dava fastidio, troppo fastidio. Andrea camminava veloce
verso il retro della casa. Girò l’angolo e la fece passare attraverso un varco
nel muro a secco. Una campagna
sterminata di ulivi le si pose davanti. Non parlava, suo cugino. Camminava e
basta. Ogni tanto si girava per controllare che lei fosse ancora lì, a due
passi di distanza. C’era silenzio si, ma le orecchie di Micaela erano rapite
dal rumore dei passi di Andrea. Scricchiolii, fruscii. Camminarono per molto e
arrivarono in un punto in cui gli ulivi si diradavano e la pianura appariva sconfinata
li aggrediva totalmente.
-
Alza gli occhi-
-
Come?- Micaela era stata talmente tanto in
silenzio che la voce di Andrea le era arrivata in ritardo
-
Alza gli occhi, guarda –
E Micaela lo fece senza pensarci. Si guardò intorno. Il vento
la travolse. Le prese tutti i pensieri e li fece volare via. Rimase senza aria
nei polmoni. Lontano, lontano ci doveva essere il mare. Ne era sicura, ne
sentiva l’odore. I suoi occhi si stavano riempiendo di tutta quella natura. Natura
che una come lei, tutta presa a fare casini, a stare in città, a frequentare
collettivi e manifestazioni e caschi e le spranghe dove le mettiamo, a fumare
venti sigarette e a leggere libri in autobus, non aveva mai preso in
considerazione. Era un’epifania. Era la prima volta dell’uomo sulla luna, anzi
era la prima volta dell’uomo sulla terra. Perché quella era terra, era mondo,
era vita, era madre, era carne e sangue, era sole che bruciava e ubriacava, era
essere sotto la forza di un qualcosa al di sopra di tutto. E vide per la prima
volta fino ad allora che gli ulivi erano come spezzati a metà, tutti, erano due
o poche più braccia che si allungavano tese verso il cielo, che il vento
spazzava via tutto, che il sole era assoluto e ti teneva sotto scacco e ti
accecava perché lì regnava lui, ti accecava per farti dimenticare di te stesso,
per farti capire che dovevi godere di tutto quello perché appena andata via non
avresti visto altro, mai più, e avresti avuto nel cuore solo malinconia e
nessuna immagine reale, perché la mente umana non può trattenerla tutta e la
modifica con la memoria. Andrea le si
avvicinò e le prese la mano e la riempì di terra. Era rossa. Era bellissima. Era
carne umana, era uomo, era lei. Mentre lei
era persa in tutto quel nuovo mondo, che comunque le sembrava sprofondato nel
tempo e invariabile e costante e invalicabile alla società e all’umanità,
Andrea era almeno a venti metri da lei e la aspettava senza dire nulla. Le lasciava
il tempo di rendersi conto, di capire, di godere di tutto quello. Questa cosa
doveva averla imparata lì, pensò lei. Lo raggiunse e lui la condusse di nuovo
in mezzo agli ulivi, ma non c’era ombra, non c’era frescura. C’era il sole che
sbatteva sulla terra e la faceva brillare sempre più. Poi cominciarono ad
apparire rari e sfatti muri a secco, bianchi come la luna, brillavano, erano
lampi, e ora invece di accecarla la rincuoravano, la facevano allontanare da
tutto e sentire vicina ad un mondo che non calcolava, che non pensava, che non
parlava, che era mondo e basta. Andrea si mise a sedere all’improvviso, su un
muretto e le puntò gli occhi addosso. Micaela gli arrivò davanti e si sedette
davanti a lui, a terra. Continuava a guardarsi intorno e poi tirò
fuori dalla tasca della giacca un pacchetto di sigarette. Ne prese due con le
mani sporche di terra e ne porse una ad Andrea.
-
Come sai che fumo?-
-
Non lo so- suo cugino abbozzò un sorriso. Stettero
in silenzio fino a metà sigaretta. Poi lui iniziò a parlare.
-
Non sei una di tante parole,ve’?-
-
Nemmeno tu-
Andrea spostò gli occhi verso la pianura che aveva
abbandonato alla sua destra
-
Io parlo, anche tanto, ma ultimamente preferisco
pensare –
-
Hai le mani fredde? –
-
Si perché?-
-
Allora pensi troppo- Micaela allungò una mano e
toccò quella di Andrea. Erano fredde tutte e due.
-
Anche tu pensi troppo quindi-
-
Un po’-
-
E a cosa pensi?-
-
Tu?-
Andrea fece di nuovo silenzio intorno a loro, guardò a
terra, spostò la terra con un piede.
-
Non te lo so dire-
-
Nemmeno io ci riesco-
-
Perché se lo dici è vero- dissero insieme. E si
guardarono e fu come sentire un attimo di tregua.
-
È vero che sei innamorata di una persona che ti
considera una sua grande amica- dissi Micaela per la prima volta in due mesi
-
È vero che non sei innamorato della ragazza con
cui hai un figlio-
-
Hai vinto tu- disse Micaela alzando gli occhi
verso il cielo
-
E questo ragazzo lo conosci da tanto?-
-
Da un po’, ma me ne sono innamorata solo ora-
-
Anche io-
-
Cosa anche tu?-
-
Anche io mi sono innamorato ora di una che
conosco da molto-
-
E com’è ?-
-
Chi?-
-
La ragazza di cui ti sei innamorato?-
-
Ha gli occhi nudi, come i tuoi –
-
Io ho gli occhi nudi? –
-
Si, ti si vede tutto-
-
E invece la mamma di tuo figlio?-
-
Lei è diversa da me-
-
Mi dispiace-
-
Anche a me-
-
Andrea?-
Lui alzò la testa per darle attenzione
-
Perché mi hai portata qui? –
-
Perché qui se hai gli occhi vuoti per poco ti si
riempiono e i pensieri spariscono-
-
E ora che ritorno che faccio?-
-
Ora che ritorni ti sentirai meno sola-
-
Ma in città non c’è tutto questo-
-
No, ma tu l’hai visto-
-
Si ma non lo rivedrò più-
-
Ma ce l’hai dentro-
-
Ce l’ho dentro dove? Non me lo ricorderò, non ce
la farò, mi si riempiranno gli occhi con i palazzi e le macchine e i viali-
-
Non ce la fanno loro a battere noi Micaela-
-
Dici di no?-
-
Dico di no, tu vieni da questo, non dalla città.
Tu sei di questa terra, non sei fatta di palazzi e luci elettriche. Tu sei
fatta di terra, e sono sicuro che l’hai pensato quando te l’ho messa in mano. L’hai
pensato?-
-
Si-
Andrea le sorrise e Micaela lo guardò con affetto. Si avvicinò
a lui appoggiandosi con le spalle sul muretto. Poi allungò una mano e toccò di
nuovo le pietre.
-
Ok, io sono fatta di terra- e raccolse una
pietra più piccola da terra – ma tu sei una pietra- e gliela mise su una gamba.
-
Io sono una pietra? Il tuo tatuaggio dice che lo
sei tu-
-
Ho
preso tante di quelle botte, tutte al di fuori del mio cuore, sono una testa
calda, mi lancio senza pensare. Sono brava col corpo, sono brava fuori. Pensavo di non potermi mai scalfire. E invece
hai ragione tu, sono fatta di terra. Sei tu la pietra. -