giovedì 26 luglio 2012

Some Nights.

" E così sei andata a vivere all'estero ?!"

No, Michele. Non sono andata a vivere all'estero. Io sono scappata. Ti ricordi quando mi dicevi che non ricordavo molte cose? Ecco, sono scappata da quelle poche che ricordavo. E se avessi avuto la fortuna di ricordare anche le altre, quelle che tu invece ricordavi, probabilmente sarei scappata molto prima. Non vivo all'estero. Vivo qui. Questo non è estero, non è un'altro stato. Questo è un posto, un posto che mi piace, un posto in cui, al momento, vivo. Mi piace perchè è grigio la maggior parte del tempo. Così non devo combattere con quel sole illuminante che c'è da noi. Piove la maggior parte del tempo, così posso coprirmi, mettere maglioni su maglioni, felpe su felpe, jeans su jeans, senza dovermi scoprire. Posso stringermi nelle spalle senza dover giustificare il gesto. Potrei aver freddo, qui. Me ne sono andata. Sono scappata. Non ho intenzione di tornare indietro. I miei occhi scuri non li guarda nessuno, la faccia triste qui ce l'hanno in molti. Dev'essere il poco sole. Quando cammino con le ciglia umide non se ne accorge nessuno, non hanno quella nostra abitudine di intrufolarsi nei tuoi problemi in questo posto. Mi piace tirare le tende e scoprire le gocce di pioggia sui vetri. Mi piace davvero molto. Mi piace bagnarmi le scarpe nelle pozzanghere che non avevo notato, prendere il tram e sentire l'annuncio della fermata in due diverse lingue, tutte e due non mie. Mi piace parlare questa lingua, mi si abbassa la voce di un tono, non sembra la mia. Quella squillante, quella dalla risata forte. Il ridere neanche lo tollero troppo. Sorrido, perchè qualche volta mi dicono che sono bella. Sorrido di imbarazzo, di non condivisione. Senza prendere in considerazione la frase, perchè comunque non ci sono mai stata abituata. E poi lo dicono perchè sono straniera. Perchè non sono chiara e lattea come loro. Sono scura, sono cupa, sono nera d'occhi e qui lo notano come particolarità interessante non negativa.
Mi piace questo posto. Mi piace la sera umida, mi piace la notte che taglia il respiro, mi piace la fumosità dei locali, l'inafferrabilità di molte frasi sentite per caso. Mi piace non essere dei loro, giustificarmi e crogiolarmi in questa non appartenenza.
La mancanza di casa non la sento. Mi sono dimenticata cosa volesse dire stare a casa. Ho dimenticato quali fossero quei dolori che mi hanno mandata qui. Però qui non ho nessun dolore, quindi ci rimango. Non sorrido molto, ma non mi sono mai piaciuta sorridente. Preferisco la mia bocca quando è storta, quando è serrata, quando non mostra i denti.
Ho dimenticato le strade di casa, gli odori, i colori dei palazzi e delle stanze. Ho dimenticato il sapore di ciò che si mangia e dell'acqua. Ora ho presenti solo quelli che ci sono qui. Mi piace molto di più sentire l'odore della pioggia su queste strade rispetto a quelle di casa. L'odore della pioggia mi sembra di ricordarlo, ma non vorrei dire una bugia.
Ah, qui non devo dire nessuna bugia, mi sono addirittura dimenticata come si fa a dire bugie. A domanda rispondo. Rispondo bene sai? Ho smesso di scrivere, ho iniziato a parlare. Parlo bene, molto. Non quanto facevi tu, ma abbastanza bene. Sto anche imparando a fare le domande. E mi piacciono le risposte. Mi piace quando sorridono e dicono che questa è una bella città, che parlo bene la lingua, che mi sta bene quel vestito. E quando mi chiedono della mia vita prima dico che era triste, che ero sempre malinconica, che ora sto bene qui e non soffro più tanto. Che ho smesso di fumare venti sigarette e ho iniziato a bere la birra. Che ho imparato a dipingere e sporco tutto con le tempere. Che ho rifatto i buchi alle orecchie e ho stampato un tatuaggio sul braccio. Che non ricordo molto di quello che mi faceva stare male e sinceramente non ricordo nemmeno quanto stavo male. Ma stavo male.
Come puoi vedere, Michele, la memoria mi fa sempre acqua. Beati gli smemorati però. Quando tornerò a fare gli stessi errori, non ricordandoli, e a stare di nuovo male magari torno a casa.
Però credo che la massa scura che ho dentro allo sterno sia molto abinata al loro cielo. Sarebbe un peccato allontanarli. Anche i miei piedi si sono abituati a queste strade, all'asfalto, ai vapori. Non saprebbero più camminare in un altro posto. Tu non riusciresti a seguirli, credimi. Ogni tanto alzo gli occhi dai miei fogli e sbircio le persone intorno. Mi è capitato qualche tempo fa che una signora mi abbia chiesto cosa stessi scrivendo. E' strano sai? Qui non si interessano molto agli altri. Le ho risposto che scrivevo cose tristi. E lei mi ha chiesto se lo facevo sempre, se scrivevo sempre cose tristi. Allora le ho risposto con la frase di Milton. Le ho detto che temo che le cose allegre fuggano da me. Te lo ricordi Milton? Si, per forza lo ricordi. L'amore per Fulvia è il motivo principale dell'abbandono di quella che è ancora casa per te. Mi hai chiesto come avevo fatto a farlo disamorare di me, ti avevo risposto che non si era mai innamorato. Ti ho risposto che le cose allegre fuggono da me, per l'ennesima volta ti avevo detto che io non sono Clementine, io sono Joel. E tu,allora, mi dicesti che avevo ragione, che sarei sempre corsa attraverso i ricordi per avere sempre lo stesso male, perchè sono un'abitudinaria, sono una che una volta che ha perso il cuore per una cosa non la lascia più. Che il dolore mi piace. Mi piace davvero.
Eppure vedi? Per una volta non hai del tutto ragione. Sono scappata. Sono scappata dai ricordi. Ho tinto i capelli e mi sono piazzata dietro gli occhi nudi, quelli che dicevi tu. La signora, quella di cui ti parlavo prima, mi ha detto che ho gli stessi occhi di Amy Winehouse. Di non fare la stessa fine, sembri più forte tu.
E' sempre stato quello il problema, ho pensato maledicendomi, io sono più forte, io sono la più forte. E niente mi crolla se non lo lascio crollare. Posso reggere tutti gli altri, posso reggere me stessa. Fino alla fine. Forse qui sto solo reggendo ancora questo dolore.
Che poi mi sembra un dolore inutile, che di dolori forti nella vita ce ne sono tantissimi e questo non è così atroce. Avrei dovuto esorcizzare quelle strade, casa. Ma quel sole Michele, quel sole. Troppo forte, mi prendeva a pugni. Ho semplicemente traslato il tempo. Ho scelto d'essere vicina ad un cosmo diverso. Non ho più l'allergia.  Non sento più Saturno. Mi sembra che i pianeti si muovano in un modo diverso. Più consono.
Ho sentito dire da queste parti che da molte atroci bugie nascono le meraviglie più assolute. Sto aspettando la mia meraviglia. C'è qualcosa che mi dice che la troverò qui. Forse per una volta sarà lei a trovare me. Non dovrò lanciarmi io come sempre. Tutto quel combattere mi aveva stancata. Per una volta ho posato le armi. Non ho persone ne giorni da dimenticare. Ho già rimosso tutto senza accorgermene. Ho solo e sempre la mia massa nello sterno qui. E lo sai, ci so convivere benissimo.
La guerra mi è sempre piaciuta, quella in cui corri, corri, perdi fiato, metti un piede male, tocchi a terra con una mano e ti spingi per rialzarti, sfiori i muri per non perdere l'equilibrio, quel rumore sordo di passi, la testa che si alza per respirare meglio e scorge il cielo, e mentre corri pensi solo a salvarti, a non finire nelle mani sbagliate, a non distruggerti le ossa. E appena salva ti chiedi se ne è valsa la pena, è valsa la pena di tutta quella fatica, di tutti quegli abbandoni, di tutte quelle lacrime mandate giù. E' valsa la pena tutta quella strada? Te lo chiedi solo quando sei salvo ormai. Quando la distanza l'hai già percorsa tutta. Ti guardi alle spalle e vedi il fumo rosso, i botti, le urla di chi ancora sta correndo e alcuni resti.
Se ho lasciato qualcosa indietro chiedo scusa, però ancora non lo so se ho lasciato qualcosa indietro. Non so se sono salva, sto correndo Michele, sto correndo sotto questo cielo nuvoloso, e sta per piovere, e la guerra, con la pioggia è più scenografica, ma con il sole passa più velocemente. Però la velocità non è mai stato un mio pregio nè una mia alleata.
Lascia stare tutte queste parole, per me ormai sono diventate inutili. Preferisco correre via. Il rumore dei passi suona meglio di qualsiasi parola.
Stammi bene.
G.

lunedì 18 giugno 2012

Hai paura del buio?

Ogni tanto penso alle cose di cui ho paura. Generalmente ci penso nei momenti meno opportuni. Ad esempio quando dovrei studiare per un'esame imminente. Ma, avanti, non è mai morto nessuno per un'esame (sfidiamo la sorte?) . In ogni caso ecco il meraviglioso elenco delle cose di cui ho paura.

1) Ho paura di svegliarmi un giorno e sapere che un membro della mia famiglia è morto senza che io potessi rivolgergli mille domande sulla sua vita fino al momento in cui sono arrivata io.
2) Ho paura di svegliarmi e trovarmi un enorme serpente che gira per la mia stanza.
3) Ho paura di diventare cieca.
4) Ho paura di svegliarmi un giorno e sapere che il mondo non avrà più quelle meravigliose giornate di sole che fanno risplendere Roma come un'unica cosa nell'universo.
5) Ho paura di non poter più stare sveglia di notte.
6) Ho paura di essere inadatta in determinati momenti per me importanti.
7) Ho paura di scrivere qualcosa di ridicolo e che sia letto da tutti.
8) Ho paura che scoppi una guerra.
9) Ho paura che un terremoto colpisca il mio paese e tutto venga distrutto, compresa la mia memoria.
10) Ho paura di perdere gli amici più cari per un mio stupido errore.
11) Ho paura di svegliarmi un giorno e di sentire i pensieri di tutti quelli che incontro. I pensieri sono privati, e segreti.
12) Ho paura di morire adesso senza aver fatto ancora nulla.
13) Ho paura che finisca il mondo.
14) Ho paura di far cadere qualcosa di fragile nel momento meno opportuno.
15) Ho paura di diventare una persona debole.
16) Ho paura dei vampiri, che uno entri dalla finestra e mi morda il collo.
17) Ho paura di avere 20 anni nel periodo fascista e non avere il coraggio d'essere una partigiana.
18) Ho paura di sopravvivere ad un disastro aereo e restare nell'Oceano fino al giorno del giudizio.
19) Ho paura di parlare.
20) Ho paura di svegliarmi un giorno e scoprire che quelli di Scientology avevano ragione e tutti gli altri torto.

Però credo anche che il Primo Maggio tutta la piazza abbia salutato Mario Monicelli e lui, in cambio, abbia fatto uscire il sole.

Venti vostre paure e una sola cosa che faccia valere la pena di dimenticarle.

Non è una storia? E chi lo dice!?

Kkarma

lunedì 30 aprile 2012

I am a rock


Micaela era sempre stata una ragazza difficile. Dura, impossibile da trattenere, testarda, aggressiva,  impulsiva. Sua madre la definiva reazionaria, suo padre agitatrice. Molto bella, troppo bella, intelligente e brillante, sempre con qualcosa da fare, sempre con qualcosa da dire. Amante della confusione, delle azioni plateali e dei toni alti. Schietta e diretta, brusca molto spesso, con la grande capacità, del tutto estranea ai genitori,  di avere la meglio su tutti gli altri. Non per prepotenza o violenza, solo per una imprescindibile forza, tanto sua quanto lo era il suo nome.  Conosciuta, rispettata e ovviamente temuta.  Contro tutte le sue decisioni, tutte le sue disavventure e i suoi colpi di testa i genitori non erano mai riusciti ad avere la meglio. Quel piglio, quello sguardo vivo, quegli occhi luminosi e brillanti avevano sempre vinto sulla vita e sul destino. La loro bambina non era mai uscita scottata da qualcosa aveva sempre conquistato il posto dove voleva stare. Mario e Camilla davanti Micaela si sentivano non impotenti ma inutili, perché in poco tempo lei era diventata indipendente e libera, senza alcuna catena, senza alcun ostacolo che non potesse superare da sola. Era nata grande, diceva la nonna. Micaela era nata grande, reazionaria e agitatrice. Era nata senza alcun difetto, forte e assoluta come nasce la vittoria in un campo di battaglia. Eppure, proprio ora che era all’università, sola con se stessa, vincitrice anche lì senza problemi di voti o di ambiente, proprio ora che sembrava essersi addirittura calmata, proprio allora era tornata a casa completamente diversa. Opaca, silenziosa, con gli occhi spenti, con la bocca chiusa. Mario e Camilla guardavano la loro ragazza ferma e immobile come non lo era mai stata. Incapace di sottostare ad un ordine solo perché era un ordine ora accettava tutto senza battere ciglio. Era quasi morta. Nessuna spiegazione, tutto andava bene. Non aveva mai spiegato molto Micaela. Non aveva spiegato nulla quando era tornata a casa con “I am a rock, I am an Island” tatuato in modo vistoso sul braccio. Non aveva spiegato nulla quando  non era proprio tornata a casa e loro avevano chiamato la polizia e la polizia aveva risposto che anche loro la stavano cercando, riapparendo due giorni dopo con il labbro tumefatto e il sopracciglio spaccato. Non aveva spiegato nulla quando la professoressa di Inglese aveva chiamato lamentandosi di lei e della sua interrogazione basata tutta su risposte tratte dalle canzoni dei Beatles. Di senso compiuto si, ma tratte dai Beatles. E a detta di Micaela aveva dovuto ammettere alla professoressa, che non si era accorta di nulla, di averlo fatto per ottenere una reazione. Non aveva spiegato nulla quando era rientrata a casa da scuola completamente fradicia e con lo zaino pieno di ferri. Camilla aveva poi scoperto che la scuola, quello stesso giorno, si era allagata per via di una manomissione. E alla sua domanda “sei stata tu” Micaela aveva risposto “certo”, ma senza dire altro. Non era una che parlava molto dei suoi motivi e ora che rimetteva piede in casa e camminava piano senza sbattere porte o alzare al massimo la musica, senza riempire la stanza di fogli e libri presi chissà dove e chissà da chi, senza ospitare l’amico di un suo amico che sta partendo per la Grecia, senza urlare al padre di spegnere quella merda di televisione, senza portare cani mezzi deformi, senza avere quella vita che sgorgava da ogni suo sguardo, ora Camilla e Mario erano preoccupati. Erano preoccupati e avevano deciso di intervenire e riscattarsi da tutte quelle volte che non erano riusciti a salvarla, tutte quelle volte che non erano riusciti a proteggerla da tutto quel mondo che si lanciava addosso.  E siccome Micaela era davvero diversa, sembrava davvero afflitta da una cosa che poteva sembrare solo tristezza cronica, non aveva detto nulla dell’improvviso viaggio dagli zii in cui i genitori l’avevano fatta imbarcare.

Quando Micaela riaprì gli occhi fu accecata da tutta la luce che proveniva dal finestrino della macchina. Aveva dormito da quando era salita in macchina fino a quel momento. Uno degli auricolari le cadde dall’orecchio e lei si ritrasse dentro la conca dello sportello cercando di proteggersi. Cercò di riaprire gli occhi gradualmente risalendo verso il finestrino. Quando finalmente ci riuscì si ritrovò persa in mezzo ad un’enorme campagna. Accecante era l’unica parola che le veniva in mente e l’unica parola da cui voleva proteggersi. Le sembrava che tutto brillasse, che tutto fosse uno specchio per rivolgerle la luce addosso. E mentre lei ancora cercava di realizzare dove fosse e verso dove fossero diretti la macchina girò d’improvviso sulla destra inserendosi in una strettissima strada immersa in un uliveto. Nel giro di pochi minuti la macchina si fermò e i suoi genitori scesero. Micaela li guardò dal finestrino come un gatto osserva le sue prossime prede.  Sua madre le sorrise

-          Scendi amore-

Micaela si mise dritta, fermò la musica che continuava ad andarle nelle orecchie e si piazzò con forza gli occhiali da sole in faccia. Scese come un ubriaco e sbattè la portiera. Si guardò intorno individuando ulivi sia alla sua destra che alla sua sinistra e un lungo muro a secco che sembrava continuare all’infinito di fronte a lei.

-          Dove siamo?-

Le parolacce erano un tocco da maestro per Micaela, le diceva chiare e forti solo quando necessarie, riusciva sempre a fare colpo. E la Micaela che c’era prima di questa nuova finta versione l’avrebbe platealmente usata.

-          Stiamo andando a casa degli zii amore-

Micaela si guardò intorno, pur avendolo già fatto prima. Non c’era niente, non c’era nessuno. Vie di fuga zero. Non che volesse scappare. Deviazione professionale, rise tra se.  Infilò le mani in tasca e girò su se stessa per individuare sua madre

-          Allora questa casa?-

-          Questo è il muro di cinta amore, ha detto la zia che ci sta venendo a prendere-

-          Questo è il muro di cinta. –  si ripetè

Si avvicinò al muro a secco e abbassò appena gli occhiali per guardarlo bene. Sembrava fosse lì da molto tempo, sembrava che tutto lì fosse nato molto tempo prima di lei. Mosse il braccio per toccarle, quelle pietre le sembravano morbide, calde, accoglienti. Avreste mai detto accogliente di una pietra? Lei si, solo di quelle.  Le sue dita raggiunsero il muro e scoprirono la pietra fredda.  Vi allargò il palmo sopra per esserne sicura. Era fredda si. Però sentiva una certa morbidezza in esse, qualcosa di strano per essere pietre.  Le continuava a guardare, le annusò, si portò la mano al viso per sentirne bene in calore. Aveva le dita sporche di polvere e continuava ad odorarle per essere sicura del profumo, perché era profumo.

-          Micaela!- una voce raggiunse i suoi sensi del tutto attenti alle pietre.

Sua zia la guardava entusiasta tenendo le mani congiunte sul petto. Micaela rificcò le mani in tasca e iniziò a spostare il peso da una gamba all’altra.

-          Ma come sei cresciuta è tantissimo che non ci vediamo!- le urlò praticamente in faccia abbracciandola. Micaela lasciò le braccia lungo i fianchi e si limitò a evitare che gli occhiali le cadessero dalla faccia.

-          Sei sempre più bella, mamma mia! Camilla mi ha detto che sei un po’ triste! E fai bene a venire qui! Fai davvero bene! Così ti rassereni un po’.  Che poi ogni tanto siamo tutti un po’ tristi! Ma dimmi, se vuoi eh, come mai sei triste? –

Quel fiume di parole non piacque molto a Micaela, che in realtà voleva solo continuare a perdersi su quelle pietre.

-          Non sono triste, è noia- disse mentendo e sussurrando

-          Oh, ma allora che fortuna c’è anche Andrea qui! Così vi divertite insieme!-

Andrea, cugino, grande, padre. La mente di Micaela lo catalogò subito. Che ci doveva fare con Andrea? Lei non voleva fare niente con nessuno, voleva stare zitta, spegnere la testa e dormire fino alla fine dei tempi. Fino alla fine del mondo, fino alla fine dell’esistenza della parola, del pensiero, dell’azione. Fino alla fine.

Il fatto che lei non avesse detto nulla non ostacolò la zia dal prenderle la mano e portarla fin dentro casa. Profumava di sapone, la casa. Era tutta in ordine, fresca, impenetrabile da tutto quel sole che c’era intorno. Da ogni finestra facevano capolino foglie e rami. Non c’era nessun rumore, nessun suono, c’era un silenzio tanto forte che un po’ la disturbava.  Qualcuno aveva detto che nel silenzio i pensieri sono più forti, e questo di certo lei non lo voleva.  La zia li fece accomodare, “accomodatevi” aveva detto. Si erano seduti tutti intorno al tavolo della cucina e Micaela si sentì estranea, si sentì al di sopra di tutti, le sembrava di vederli dall’alto, di non essere parte di loro, di essere una spettatrice, una normale persona che va al cinema a vedere un film del quale non gliene frega niente. Non sapeva nemmeno se voleva o non voleva essere lì, dalla zia. Però sapeva bene che non voleva parlare e che non riusciva a seguire i loro discorsi.  E che tutto quel silenzio ora le stava davvero dando fastidio. In realtà le stava dando fastidio anche lo stomaco, le stava salendo la nausea. E l’ansia. E poi di colpo scemava. E ritornava. E le sue orecchie percepivano lontane le parole dei genitori e della zia. Come stai come va io sto bene tu Micaela a Roma sta benissimo ha fatto amicizia ma che hai combinato ultimamente qualche altra marachella no nessuna sguardo amorevole e preoccupato e ora vomito qui sul tavolo e il cervello si disconnette e lei mette una mano davanti alla bocca poi passa e allora il piccolino come sta e la mamma stanno bene sono in montagna dai suoceri e ora dio falli stare zitti e in tutto questo, all’improvviso, Andrea, il cugino grande padre, anche senza virgole, apparve sul ciglio della porta proprio dove gli occhi di Micaela si erano accomodati, anche loro, da mezz’ora.

-          Ciao – Andrea, voce atona.  Mario e Camilla cominciarono a starnazzare intorno a lui.

La zia si alzò così, per compagnia. Micaela rimase un attimo seduta ad osservare suo cugino. Quanti anni aveva non se lo ricordava. Aveva avuto da un anno un figlio, Luca, con una ragazza con cui non era sposato. Ok, bene, fin qui c’era. Ma tutto il resto non lo trovava da nessuna parte. Non cose del  tipo che studi ha fatto, da quanto non lo vedo, com’è per lui essere padre. No. Micaela non trovava da nessuna parte nella sua memoria il motivo per cui suo cugino dovesse avere quella faccia. Scura, opaca, silenziosa. Quella voce atona, quegli occhi morti. Poi Micaela si alzò per salutarlo e la stretta di lui sul suo braccio le fece venire i brividi. Lo guardò negli occhi e penso perché mai un ragazzo così bello dovesse essere così triste. E nel momento in cui Andrea incrociò lo sguardo di sua cugina, che non ricordava così alta, così bella, così grande, pensò perché mai una ragazza così bella dovesse essere così triste. Perché si vedeva, negli occhi, che non c’era luce. 

-          Ma che belli i due cugini insieme, ci siete usciti proprio bene voi due eh- 

La zia non aveva torto. Visti da fuori Micaela e Andrea erano belli da togliere il fiato. Mori con gli occhi neri, alti e snelli, con le forme ben definite, labbra grandi e denti bianchi, pelle perfetta e scura.

-          Belli e bravi, tutti e due- disse Mario toccando la spalla di Andrea.

-          Tesoro, perché non vi andate a fare un giro? – la zia, secondo Micaela, parlava un tantino troppo.

Andrea guardò sua cugina. Le si avvicinò le indicò la porta. E lei notò le mani, sembravano calde, morbide, accoglienti.

-          Andiamo- disse senza muovere ciglio.

Micaela si infilò subito gli occhiali da sole e lo seguì.  Appena chiusa la porta la luce li investì di nuovo. Lei rabbrividì, le dava fastidio, troppo fastidio. Andrea camminava veloce verso il retro della casa. Girò l’angolo e la fece passare attraverso un varco nel muro a secco.  Una campagna sterminata di ulivi le si pose davanti. Non parlava, suo cugino. Camminava e basta. Ogni tanto si girava per controllare che lei fosse ancora lì, a due passi di distanza. C’era silenzio si, ma le orecchie di Micaela erano rapite dal rumore dei passi di Andrea. Scricchiolii, fruscii. Camminarono per molto e arrivarono in un punto in cui gli ulivi si diradavano e la pianura appariva sconfinata li aggrediva totalmente.

-          Alza gli occhi-

-          Come?- Micaela era stata talmente tanto in silenzio che la voce di Andrea le era arrivata in ritardo

-          Alza gli occhi, guarda –

E Micaela lo fece senza pensarci. Si guardò intorno. Il vento la travolse. Le prese tutti i pensieri e li fece volare via. Rimase senza aria nei polmoni. Lontano, lontano ci doveva essere il mare. Ne era sicura, ne sentiva l’odore. I suoi occhi si stavano riempiendo di tutta quella natura. Natura che una come lei, tutta presa a fare casini, a stare in città, a frequentare collettivi e manifestazioni e caschi e le spranghe dove le mettiamo, a fumare venti sigarette e a leggere libri in autobus, non aveva mai preso in considerazione. Era un’epifania. Era la prima volta dell’uomo sulla luna, anzi era la prima volta dell’uomo sulla terra. Perché quella era terra, era mondo, era vita, era madre, era carne e sangue, era sole che bruciava e ubriacava, era essere sotto la forza di un qualcosa al di sopra di tutto. E vide per la prima volta fino ad allora che gli ulivi erano come spezzati a metà, tutti, erano due o poche più braccia che si allungavano tese verso il cielo, che il vento spazzava via tutto, che il sole era assoluto e ti teneva sotto scacco e ti accecava perché lì regnava lui, ti accecava per farti dimenticare di te stesso, per farti capire che dovevi godere di tutto quello perché appena andata via non avresti visto altro, mai più, e avresti avuto nel cuore solo malinconia e nessuna immagine reale, perché la mente umana non può trattenerla tutta e la modifica con la memoria.  Andrea le si avvicinò e le prese la mano e la riempì di terra. Era rossa. Era bellissima. Era carne umana, era uomo, era lei.  Mentre lei era persa in tutto quel nuovo mondo, che comunque le sembrava sprofondato nel tempo e invariabile e costante e invalicabile alla società e all’umanità, Andrea era almeno a venti metri da lei e la aspettava senza dire nulla. Le lasciava il tempo di rendersi conto, di capire, di godere di tutto quello. Questa cosa doveva averla imparata lì, pensò lei. Lo raggiunse e lui la condusse di nuovo in mezzo agli ulivi, ma non c’era ombra, non c’era frescura. C’era il sole che sbatteva sulla terra e la faceva brillare sempre più. Poi cominciarono ad apparire rari e sfatti muri a secco, bianchi come la luna, brillavano, erano lampi, e ora invece di accecarla la rincuoravano, la facevano allontanare da tutto e sentire vicina ad un mondo che non calcolava, che non pensava, che non parlava, che era mondo e basta. Andrea si mise a sedere all’improvviso, su un muretto e le puntò gli occhi addosso. Micaela gli arrivò davanti e si sedette davanti  a lui, a terra.  Continuava a guardarsi intorno e poi tirò fuori dalla tasca della giacca un pacchetto di sigarette. Ne prese due con le mani sporche di terra e ne porse una ad Andrea.

-          Come sai che fumo?-

-          Non lo so- suo cugino abbozzò un sorriso. Stettero in silenzio fino a metà sigaretta. Poi lui iniziò a parlare.

-          Non sei una di tante parole,ve’?-

-          Nemmeno tu-

Andrea spostò gli occhi verso la pianura che aveva abbandonato alla sua destra

-          Io parlo, anche tanto, ma ultimamente preferisco pensare –

-          Hai le mani fredde? –

-          Si perché?-

-          Allora pensi troppo- Micaela allungò una mano e toccò quella di Andrea. Erano fredde tutte e due.

-          Anche tu pensi troppo quindi-

-          Un po’-

-          E a cosa pensi?-

-          Tu?-

Andrea fece di nuovo silenzio intorno a loro, guardò a terra, spostò la terra con un piede.

-          Non te lo so dire-

-          Nemmeno io ci riesco-

-          Perché se lo dici è vero- dissero insieme. E si guardarono e fu come sentire un attimo di tregua.

-          È vero che sei innamorata di una persona che ti considera una sua grande amica- dissi Micaela per la prima volta in due mesi

-          È vero che non sei innamorato della ragazza con cui hai un figlio-

-          Hai vinto tu- disse Micaela alzando gli occhi verso il cielo

-          E questo ragazzo lo conosci da tanto?-

-          Da un po’, ma me ne sono innamorata solo ora-

-          Anche io-

-          Cosa anche tu?-

-          Anche io mi sono innamorato ora di una che conosco da molto-

-          E com’è ?-

-          Chi?-

-          La ragazza di cui ti sei innamorato?-

-          Ha gli occhi nudi, come i tuoi –

-          Io ho gli occhi nudi? –

-          Si, ti si vede tutto-

-          E invece la mamma di tuo figlio?-

-          Lei è diversa da me-

-          Mi dispiace-

-          Anche a me-

-          Andrea?-

Lui alzò la testa per darle attenzione

-          Perché mi hai portata qui? –

-          Perché qui se hai gli occhi vuoti per poco ti si riempiono e i pensieri spariscono-

-          E ora che ritorno che faccio?-

-          Ora che ritorni ti sentirai meno sola-

-          Ma in città non c’è tutto questo-

-          No, ma tu l’hai visto-

-          Si ma non lo rivedrò più-

-          Ma ce l’hai dentro-

-          Ce l’ho dentro dove? Non me lo ricorderò, non ce la farò, mi si riempiranno gli occhi con i palazzi e le macchine e i viali-

-          Non ce la fanno loro a battere noi Micaela-

-          Dici di no?-

-          Dico di no, tu vieni da questo, non dalla città. Tu sei di questa terra, non sei fatta di palazzi e luci elettriche. Tu sei fatta di terra, e sono sicuro che l’hai pensato quando te l’ho messa in mano. L’hai pensato?-

-          Si-

Andrea le sorrise e Micaela lo guardò con affetto. Si avvicinò a lui appoggiandosi con le spalle sul muretto. Poi allungò una mano e toccò di nuovo le pietre.

-          Ok, io sono fatta di terra- e raccolse una pietra più piccola da terra – ma tu sei una pietra- e gliela mise su una gamba.

-          Io sono una pietra? Il tuo tatuaggio dice che lo sei tu-

-          Ho preso tante di quelle botte, tutte al di fuori del mio cuore, sono una testa calda, mi lancio senza pensare. Sono brava col corpo, sono brava fuori. Pensavo di non potermi mai scalfire. E invece hai ragione tu, sono fatta di terra. Sei tu la pietra. -

mercoledì 21 settembre 2011

Sympathy for the Devil

-Se muori occulto il cadavere, te lo dico subito
Emanuele guardò le spalle strette di quel diavolo che l'aveva portato lì.
Voglio andare al mare, gli aveva detto. Al mare, a novembre. Quando era salito in macchina, il diavolo, aveva solo degli inesistenti shorts, la maglietta dei RollingStone senza maniche e un gilet di jeans. Si era pure vestito da mare, il diavolo.
L'aveva costretto a spingersi fino al punto più alto della scogliera. E ora se ne stava lì, dandogli le spalle, ad un passo da volare giù, dritta in mezzo alle onde, portandosi quella che dall'odore gli sembrava una canna alla bocca.
Il vento le lanciava i capelli in mille direzioni. Il sole, un po' morto, la tingeva di bianco.
-France' vieni qui e la smetti?
le disse sedendosi dove le pietre degli scogli sembravano meno appuntite. Emanuele alzò la testa verso il cielo. Faceva un freddo maledetto e quella se ne stava mezza nuda lì, a fumare e a pensare chissà cosa.
Si guardò le scarpe, sporche di tutta la terra che aveva dovuto calpestare per arrivare fino lì.
Lo sguardo fisso nell'acqua sottostante e la testa persa a calcolare quanti metri ci potessero essere, Francesca non sentiva una parola di tutto quello che Emanuele le stava dicendo, se le stava dicendo qualcosa.
Non aveva voglia di fare niente,se non quello per cui si era fatta portare fin lì.
Basta. Aveva visto tutto, fatto tutto, provato ogni cosa. Era finita in diversi casini, e se ne era anche stata a casa tranquilla come un gatto.
Aveva fatto una lunghissima lista a 10 anni. Ora ne aveva 21 e la lista era stata aggiornata,cambiata e terminata. Terminata nel senso che tutto quello che c'era da fare l'aveva fatto.
Tranne una.
Si girò per un attimo.
Emanuele se ne stava lì a giocare con delle pietre. E si che era bello. Un dio greco. Ma lei se lo sarebbe mangiato in un boccone.
Francesca lo sapeva benissimo. Era innamorata di lui. Ma l'amore di Francesca non era come quello degli umani. Era un amore satanico. Voleva per se quel ragazzo già uomo, con quegli occhi scuri e quei capelli corvini. Lo voleva, ma non voleva essere sua. Lei era solo di se stessa. E basta.
Riportò la testa verso l'acqua. La corrente era talmente forte che si stava quasi bagnando tutta a stare lì. Alzò gli occhi verso l'orizzonte. Vedeva la città dall'altra sponda del golfo.
Il cielo tuonò.
Come un lampo gli occhi di Emanuele si lanciarono su Francesca.
Tutto il suo corpo sussultava. Fremeva. Sentiva il bisogno animale di afferrarla e allontanarla da quella cazzo di scogliera a picco.
Lo sapeva benissimo che se si fosse avvicinato quella per dispetto si sarebbe magari lanciata giù. Un diavolo.
Fissava le gambe filiformi immobili contro il vento. La maglietta le sbatteva sui fianchi. Ma che c'aveva da guardare? L'aveva fatto andare fin lì per guardare il mare?
Avrebbe dato qualsiasi cosa per averla un attimo seduta accanto a lui. Baciarla? Lei l'avrebbe divorato, senza lasciare nemmeno le ossa. Era sicuro di questo. Sicurissimo. Ne aveva visti tanti finire sotto i suoi denti. E anche se il suo cuore Emanuele gliel'aveva regalato da tanto tempo, non aveva intenzione di morire.
Francesca si girò
-Vieni qui!- Solo la testa verso di lui.
Emanuele si alzò e si avvicinò a lei.
-Qui, nel punto in cui sono io- gli indicò lo spuntone di una pietra con l'indice reduce da una guerra con lo smalto.
Emanuele si spinse più avanti.
-Guarda giù-
Gli occhi gli si persero in quel turbinio di colori e rumori. Sentì le vertigini arrivare e passare in un lampo. Ci saranno stati venti metri più o meno.
Francesca lo guardò con gli occhi persi tra i flutti. Cazzo se era bello.
Quando lui tornò a guardarla lei era già li. Gli prese la testa tra le mani e lo baciò sorridendo.
Emanuele stava per portarle le mani sui fianchi quando lei si staccò.
Si staccò saltando giù.
Di Francesca si sentì l'urlo e poi il fragore in mezzo alle onde.
Emanuele gridò sporgendosi in avanti. Gli occhi si persero quella macchia di colore che poteva essere Francesca. Si guardò intorno alla ricerca di qualcuno.
Ma figurati, a novembre in quel cazzo di posto sperduto.
Si mise a correre verso la parte più bassa della scogliera.
C'era un'insenatura da cui l'estate prima si erano tuffati. era bassa,poteva buttarsi da lì.
Saltò giù come un pazzo, da uno spuntone all'altro, cadde e si rialzò. E rialzò anche gli occhi, vedendo nient'altro che Francesca arrampicarsi sulla parte più bassa dello scoglio.
-Tirami su!
gli gridò ricadendo in mare con una risata.
Emanuele rimase immobile,freddo e vuoto come un morto.
Diavolo.

mercoledì 31 agosto 2011

Comunque vadano le cose

E’ un attimo. Un attimo. Durava poco meno di un battito.
Non aveva altro da fare se non aspettare che colasse giù.
Non aveva niente da dire, niente da fare, niente da dare.
Non aveva altro da fare. Era inevitabile.
Non si guardò indietro. Non si era mai guardata indietro.
Era un anno che andava avanti facendosi colare tutto addosso, e tracce non ne rimanevano.
Quindi non c’era niente da guardare ora. Un anno senza usare gli occhi, doveva concluderlo così.
Davanti a lei c’era il futuro, dietro boh, un enorme buco nero.
Giorni ed ore andate via senza alcun problema, senza alcun fastidio, senza nessuna lacrima.
Tutto una grande bocca colorata con rossetto e occhi truccati da gatta.
Non c’era stato nulla di che. Era andato tutto via, in un attimo.
E in un attimo doveva finire. Non c’era da calcolare, ponderare, pensare, ragionare, riflettere o esagerare.  Le cose erano così e basta.
Guardava quello che le stava intorno con le ciglia sospese.
Quegli occhi belli grandi e blu illuminati come il sole scrutavano il grigio che c’era intorno.
Non era strano non provare niente. Non era stano stare lì a sentire la sua testa formulare questi pensieri.
Non era farsi coraggio, non era spronarsi. Era aspettare il momento giusto.
L’attimo giusto. Il battito giusto.
Lo spazio tra quello appena finito e quello giusto, perfetto, che sarebbe venuto.
Era quello spazio adorabile che stava aspettando.
Sentiva le braccia morte intorno ai suoi fianchi, le gambe rigide a sostenerla, il vento in faccia freddo.
Sentiva i brividi sotto il maglioncino leggero. Sentiva la stoffa sbatterle contro i fianchi.
Sentiva i muscoli delle gambe mandarle messaggi del troppo freddo.
Gli slip vi devono bastare.
Pensò solo questo. Fece in tempo a pensarlo.
Spazio perfetto.
Le gambe cedettero sotto comando.
Lo stomaco saltò in aria.
Le mancò l’aria, nonostante tutta quella che le arrivò contro.
Poi non sentì più nulla.
Era il futuro.

martedì 19 luglio 2011

Set fire to the rain

La pioggia cadeva fitta.
Un bambino guardava dalla finestra quello spettacolo strano, con la bocca semiaperta e le mani sul vetro.
Una donna in mezzo alla strada correva scomposta guardando ogni tanto quelle gocce che spigionavano calore.
Giuda. Sporco giuda traditore.
La luce del cielo giallognolo sembro infiammarle i capelli attraverso l’enorme finestra del palazzo.
Si era tolta il cuore e glielo aveva buttato ai piedi.
E lui le aveva rubato tutto. 
Tutto cominciava a riscaldarsi. La pioggia cadeva fitta. L’aria era diventata tutta vapore.
Sporco giuda traditore. Camminava lentamente dietro di lui. Sentiva fischi di gocce di pioggia caderle vicino, sfiorarla, sentiva il calore.
L’asfalto cominciò a ribollire. Le macchine friggevano sotto la pioggia. Le persone cominciarono a correre via spaventati e a nascondersi dentro i negozi.
Anche l’ombrello di quel porco traditore cominciò a scaldarsi, tanto che lui lo gettò a terra con un urlo di dolore.
La luce gialla illuminava i vaporosi capelli rossi che le ondeggiavano intorno al bel viso rotondo.
Lei si fermò.
Giuda. Sporco giuda traditore.
Lui non poté fare altro che fermarsi. Aveva i piedi inchiodati a terra. L’asfalto si stava sciogliendo e le sue scarpe si erano irrimediabilmente incollate al suolo.
Cercò di staccarsi ma non ci riuscì. Iniziò a sfilare dalle scarpe un piede alla volta.
Lei guardò in su.
Le nuvole si raggrumarono velocissime.
Si abbassarono in un lampo.
Riprese a camminare e lo superò.
Sporco giuda bastardo.
Cominciarono a cadere fiamme.
 L’unica persona a non essere al riparo era quello sporco giuda traditore, incollato all’asfalto.
I suoi grandi passi si attutivano lasciando spazio alle urla di terrore per quella pioggia infuocata.
Non si guardò indietro.
Sollevò lo sguardo di nuovo in alto e le fiamme cominciarono a cadere fitte e rapide.
Sentì l’urlo che stava aspettando.
Maiale. Infame e traditore. Giuda.
Chiuse gli occhi rallentando per poco il passo.
La pioggia cessò.


Tutti accorsero a vedere cosa fosse rimasto di quell’uomo bruciato vivo.

lunedì 11 luglio 2011

The Only Exception

Un giorno ho visto mio padre cadere e andare in frantumi il suo cuore. Raccolse i pezzi in fretta, vergognandosi, come un ladro li prendeva e li infilava nella tasca della giacca.
Mia madre non c’era già più.
Appena mio padre rientrò salendo di corsa nella sua stanza io andai fuori, proprio dove il cuore si era frantumato, e raccolsi tutti quei granellini, quasi polvere, che erano rimasti a terra. Li conservai, per quel giorno in cui sarebbe venuto a chiedermi di rincollare tutto.
Eppure aspettai tanto. Io crescevo e lui aveva un buco nero nel petto. Dormiva poco, forse aveva paura di morire senza cuore. Ma non venne mai a chiedermi di aggiustarglielo. Ogni tanto stavo fuori casa per un po’, ma tornavo presto, poteva sempre essere il momento giusto. Ma non avevo speranze. Mio padre non veniva mai con i suoi frammenti di cuore in mano a chiedermi di aiutarlo.

A volte pensai che avrebbe potuto ricrescergli. Ma anche la notte, quando appena appena si addormentava, riuscivo a vedergli quel buco tremendo sotto la camicia.
Io sapevo che era per la mamma, per quella cosa brutta che gli aveva detto mentre andava via. Io l’avevo guardata da lontano. Ho sempre pensato che lei non lo avesse mai avuto il cuore, al contrario di mio padre.
Resistette poco  a quella partenza prolungata. Dopo qualche mese inciampò e il cuore si ruppe tutto.
Anche questo avevo visto da lontano.
I granellini ogni tanto luccicano. E penso che sia perché mio papà si avvicina alla mia stanza. Lo sentono e sperano con me che entri per farsi medicare.

Conobbi l’amore e l’indifferenza insieme. E decisi subito che io volevo l’amore, a costo di stare senza cuore, a costo di dormire poco e di raccogliere i pezzetti in strada, come una ladra. Ma volevo l’amore, proprio come il mio papà. Magari avrei potuto capirlo di più senza cuore. Cercai di spezzarmelo più volte, ma non ci riuscii mai. 
Un giorno ci fu una tempesta e dalla mia finestra il vento si portò via le mie bricioline di cuore. Piansi come non mai, e mentre piangevo sentii uno scricchiolino. Piccolo piccolo. Ne fui così felice che smisi di piangere. In fondo quel cuore si poteva aggiustare anche senza la polvere.
Negli anni lo sentii scricchiolare altre volte. Non faceva male, graffiava soltanto.
Un giorno mi innamorai di un ragazzo. Era bello, con gli occhi brillanti e un sorriso buono. Mi prendeva e mi sollevava. Io ridevo e pensavo che avevo fatto bene a scegliere l’amore, perché questa felicità non avrei potuto provarla altrimenti.
Mi portò dei fiori di campo, pieni di colori e di profumi. Mi scrisse una lettera d’amore e mi baciò.
Avevo smesso di rimanere in casa, a volte mi dimenticavo di quei pezzi nascosti chissà dove.
Ma il mio cuore era così felice che non riuscivo a pensare ad altro. Ero innamorata e stavo dimenticando cosa fosse la solitudine di un cuore scricchiolante e di un cuore rotto.
Mio padre era sempre uguale. Sempre con quel grosso buco che avrei voluto riempire con un po’ del mio. Me ne sentivo così tanto nel petto da star male di felicità a volte.
Mi ricordo che il sole brillava tantissimo. Lo vidi mano nella mano con una ragazza, baciarla e regalarle gli stessi fiori di campo pieni di colori e di profumi. Lo vidi da lontano. Cominciai a correre, ma caddi.
Nella caduta loro si girarono e io mi alzai di scatto, non volevo che mi vedesse. Ma quando mi alzai vidi a terra i frantumi rossi del mio cuore. Raccolsi i pezzi in fretta, vergognandomi, come una ladra li prendevo e li infilavo nelle tasche della gonna.
Tornai a casa correndo in camera mia. Entrai e li guardai. Avevo scelto l’amore, avevo scelto di essere come mio padre. E così era stato. Lo sapevo che non avrei mai amato nessun altro come lui. Che quella felicità, ed ogni altra, nel mio cuore integro e puro non sarebbe mai più tornata. Sapevo che nessun sorriso sarebbe tornato sulla mia bocca, com’era stato per mio padre. Non riuscivo a piangere. Li guardavo nelle mie mani e sentivo un gran vuoto, un immenso nulla.
Mio padre bussò alla mia porta. Entrò e si sedette vicino a me. Tolse dalla tasca della giacca un fazzoletto. C’erano i suoi frantumi. Poi mi scostò la camicetta e infilando la mano nel buco nero ne tolse quasi un’intera metà di cuore.
Infilò una mano nel suo buco nero e ne tolse quasi un’esatta metà di cuore.
Mi sorrise, tenendo in mano il suo pezzo.
Io gli sorrisi, tenendo in mano la mia metà.
Erano la nostra unica eccezione concessa dall’amore.
Per noi due, solo per noi due, erano rimaste quelle metà.
-Aggiustiamoli insieme. – mi disse.